Open Access e Open Data
L’Istituto Italiano di Antropologia ha lanciato nel 2014 l’iniziativa Oasis (Open Access Institutes), basata su un insieme di azioni integrate volte allo sviluppo e all’implementazione di un approccio Open Science a tutte le sue attività.
L'accesso aperto ai prodotti della ricerca è una parte essenziale dei processi di produzione scientifica ed è sempre più percepita come un importante fattore in grado di incidere in maniera determinante per il progresso scientifico. In questo contesto, nel corso dell’anno 2018 è stata intrapresa un’analisi sull’accessibilità dei materiali biologici umani conservati nelle biobanche di ricerca. Questo studio ha preso in considerazione le relazioni fra biobanking e scelte politico-economiche e le possibilità di incremento della condivisione dei campioni biologici su scala mondiale tramite i network di biobanche (Capocasa et al 2018).
Nel 2019 è stata invece condotta una riflessione sulle barriere fra scienza e società e sulla possibilità del loro superamento da parte della comunità scientifica. Lo studio ha riguardato la comprensione del coinvolgimento di scienziati e cittadini in alcune forme di condivisione, non solo in ambito scientifico ma anche sociale, quale esempio di applicazione di processi democratici di tipo esteso. Particolare attenzione è stata rivolta al ruolo della tecnologia e del World Wide Web (Capocasa e Rufo 2019).
Nel biennio 2020-2021 è stata sviluppata un’indagine sull’accesso aperto agli articoli scientifici riguardanti la Covid-19 pubblicati nei primi sei mesi dall’identificazione dell’agente eziologico della malattia. In tale ricerca è stato inoltre definito un protocollo basato sui post-print, finalizzato a incrementare l’accessibilità ai lavori scientifici (Destro Bisol et al 2020; Capocasa et al 2020, 2021). In questo stesso biennio si è proceduto infine a completare un’analisi sulla condivisione dei dati genomici in biomedicina, corredandola con un confronto con i risultati ottenuti dalla valutazione del tasso di condivisione di dati in antropologia molecolare (Anagnostou et al 2021).
Nel 2022 è stata sviluppata un’indagine preliminare sull’attitudine dei ricercatori a ricorrere alla “green road”, con un'attenzione alle pubblicazioni riguardanti la pandemia da Covid 19 (Capocasa et al. 2022; Destro Bisol et al. 2022). Lo studio è stato condotto allo scopo anche di andare a valutare l’impatto della “green road” sulla effettiva accessibilità all’informazione scientifica. I risultati sono stati discussi alla luce della crescente introduzione dei “trasformative agreements”, contratti studiati al fine di combinare la sottoscrizione di abbonamenti alle riviste con la possibilità di pubblicare in Open Access .
Studio etno-linguistico della Tunisia meridionale
La Tunisia può essere considerata un crocevia tra l’Africa sub-Sahariana, l’Europa mediterranea e il Medioriente. Questo territorio rappresenta pertanto un importante contesto per lo studio degli effetti dei cambiamenti culturali sulla struttura genetica delle popolazioni umane. Durante l’espansione araba in Nord Africa, le comunità locali berbere adottarono la religione islamica e, nella maggior parte dei casi, anche la lingua araba. Insieme alla tratta degli schiavi di origine sub-sahariana e all’isolamento di diverse comunità berbere che furono costrette ad emigrare nel sud della Tunisia, la diversità genetica delle popolazioni stanziate in questo territorio è quindi stata modellata dal mescolamento a vari livelli fra gli autoctoni e gli arabi.
L’analisi di circa un milione di marcatori biallelici autosomici ha mostrato una netta distinzione tra popolazioni Berbere e Arabe, in contrasto con quanto osservato in studi precedenti basati su marcatori unilineari (Anagnostou et al 2020). L’identificazione e le datazioni di eventi di mescolamento hanno permesso di ricostruire le dinamiche alla base di tale diversità. Infatti, le prime tracce di introgressione di linee Arabe nelle popolazioni Berbere riguardano solamente la comunità di Matmata e risalgono alla metà dell’XI secolo, coerentemente con la ben documentata invasione Hilaliana condotta da tribù beduine originarie della penisola Araba. In seguito, una successione di eventi migratori, durata circa 4 secoli, avrebbe prima portato gruppi di origine araba a stabilirsi nell’oasi di Douz, per poi mescolarsi con popolazioni Berbere arabizate.
La struttura genetica delle popolazioni tunisine è stata ulteriormente esplorata attraverso l’analisi della variabilità del DNA mitocondriale (Capocasa et al. submitted). Al fine di valutare il possibile impatto di eventi storici recenti sul loro pool genico, si è proceduto allo studio delle relazioni genetiche di questi gruppi etno-linguistici con altre popolazioni del contesto africano e del bacino mediterraneo. Inoltre, si è approfondita l’analisi dell’isolamento genetico di alcuni gruppi della Tunisia meridionale e i risultati sono stati confrontati con quelli ottenuti in precedenza usando un pannello di SNPs autosomici. Lo studio genetico delle popolazioni tunisine sarà infine completato attraverso l'analisi delle varianti alleliche associate alla tolleranza al lattosio.
Atlante bio-culturale Italiano
Dal 2008 ISItA sostiene un programma di ricerca sulla diversità genetica e genomica delle popolazioni italiane in relazione alla loro diversità culturale.
L’analisi sistematica della diversità del DNA mitocondriale e del cromosoma Y in un ampio insieme di popolazioni italiane, comprese quelle sottoposte a fattori di isolamento geografici e culturali, ha evidenziato che la magnitudine della diversità genetica tra loro è maggiore di quanto osservato lungo il continente europeo. Questa diversità è prevalentemente dovuta dalla moltitudine di isolati geografici e linguistici che abitano lungo l’intera penisola. Questo è ancora più evidente per le cosiddette “isole linguistiche” delle alpi orientali (Sappada, Sauris e Timau) Capocasa et al., 2014), per le quali sono stati osservati i più robusti segnali di isolamento probabilmente determinati da una combinazione di fattori geografici e culturali.
Da una prospettiva genomica, l’analisi di circa 88 mila SNPs autosomici ha confermato il più alto grado di isolamento delle minoranze germanofone delle Alpi orientali, se comparate con altri isolati italiani ed europei. Inoltre, l’analisi approfondita della variabilità intra- ed inter-popolazione ha mostrato che la dicotomizzazione delle popolazioni umane in isolate ed aperte non è in grado di catturare la reale relazione tra le loro caratteristiche genomiche (Anagnostou et al., 2017). Infine, l'analisi dell'eterogeneità tra genomi all'interno di popolazioni isolate e aperte sfida il paradigma tradizionale delle popolazioni isolate come entità geneticamente (e a livello genomico) uniformi. Più specificamente, ancora una volta, tre piccoli isolati con elevato grado di consanguineità delle Alpi Orientali Italiane sono risultati essere caratterizzati da livelli di eterogeneità inter-individuale ampiamente superiori a quelli di tutte le altre popolazioni, probabilmente a causa di eventi relativamente recenti di introgressione genetica (Anagnostou et al., 2019).
Nel 2022, allo scopo di realizzare una rassegna esaustiva sulla diversità genetica delle popolazioni italiane, è stato pubblicato il lavoro "From the Alps to the Mediterranean and beyond: genetics, environment, culture and the “impossible beauty” of Italy" in collaborazione con Francesco Montinaro (Università di Bari) e Marco Sazzini (Università di Bologna).
Dieta ed evoluzione umana: diversità dei geni del gusto amaro e malaria in Africa centro-occidentale
Dalla comparsa del nostro genere, avvenuta circa 2,7 milioni di anni fa con Homo habilis, fino a buona parte della storia di Homo sapiens, i gruppi umani hanno basato la propria economia di sussistenza sulla caccia di prede animali e raccolta di vegetali. Con la transizione neolitica, questo modello di approvvigionamento alimentare è stato sostituito da sistemi basati sull’agricoltura e l’allevamento del bestiame. Tuttavia, ancora oggi alcuni gruppi umani fanno leva esclusivamente o prevalentemente sulle risorse alimentari già disponibili in natura. A questo riguardo, l’Africa centrale e occidentale rappresenta un'area di notevole interesse dal momento che ospita gruppi umani che adottano entrambi questi stili di vita. Tra questi vi sono i Pigmei, popolazioni semi-nomadi che vivono in ambiente di foresta e i Bantu, raggruppamento linguistico che comprende oltre 400 etnie ampiamente diffuse nell'Africa sub-Sahariana.
Data la continua deforestazione dell’Africa sub-sahariana, dovuta principalmente all’uso intensivo per scopi agricoli portata avanti dai Bantu, si sono creati e ingranditi ambienti particolarmente favorevoli alla diffusione dei vettori (genere Anopheles) del Plasmodium falciparum, responsabile della cosiddetta terzana maligna.
Sia nei Pigmei che nei Bantu sono presenti varianti genetiche che conferiscono protezione verso la malaria da P. falciparum, che riguardano principalmente l'emoglobina e gli enzimi e antigeni eritrocitari. Un’ulteriore importante prospettiva di studio è rappresentata dal ruolo delle abitudini alimentari. In particolare, è noto che alcuni composti dal gusto amaro introdotti con la dieta possono esercitare un’azione protettiva nei confronti della malaria; la maggiore o minore percezione di tale gusto potrebbe essere decisiva per la loro assunzione continuativa e per un eventuale effetto di protezione. La percezione del gusto amaro è determinata da una famiglia di geni TAS2R (Taste 2 Receptors), 25 in totale, che codificano per specifici recettori, aventi diversi substrati e divisi in base all'affinità con determinati composti (ligandi). Diversi studi hanno permesso l’identificazione di due fenotipi, quello ancestrale (non-taster) e quello derivato (taster). Quest’ultimo sarebbe stato favorito dalla selezione naturale in quanto avrebbe permesso di evitare composti particolarmente nocivi, di gusto spiccatamente amaro.
Il progetto, sostenuto in parte dall’Istituto Italiano di Antropologia, si pone l'obiettivo di approfondire il possibile ruolo della percezione del gusto amaro nella protezione dalla malaria, attraverso l’analisi della diversità di tutti i geni del gusto conosciuti ad oggi in un totale di sei popolazioni bantu e pigmee dell’Africa centro-occidentale (Camerun e Repubblica Centro Africana). Tali popolazioni si prestano molto bene a questo studio in quanto la loro dieta tradizionale comprende alimenti come la manioca, le noci della palma, i semi dei frutti, erbe e vegetali spontanei o coltivati che contengono composti amari con una possibile azione antimalarica.
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